Il
26 settembre del 2002 il sito Repubblica.it scriveva che secondo i
dati
del rapporto 2001 su redditi e povertà pubblicato dal Census Bureau
erano chiari: negli Stati Uniti i poveri erano 32,9 milioni, 1,3
milioni in più rispetto all'anno precedente. Nove anni dopo: il sito
web del giornale “Il Fatto Quotidiano” scrive che nel 2010 gli
Stati Uniti contano 46,2 milioni di poveri, il 14,3% della
popolazione. I dati provengono anche questa volta dal rapporto
annuale del Census Bureau. “La povertà dilaga ormai negli Stati
Uniti”, ormai è un dato di fatto. Il paese che l'intero occidente
ha preso come modello ha prodotto 13,3 milioni di poveri in nove
anni. La cosa, ahimè, non mi stupisce. Anzi, è l'ennesima conferma
che la globalizzazione, cioè l'estensione universale del modello di
sviluppo industriale(cioè quello utilizzato dagli Stati Uniti), non
solo ha provocato, provoca, e continuerà a provocare la distruzione
dei paesi che ancora non avevano avuto la fortuna di conoscere il
“progresso” e il “benessere”, come l'Africa che ai primi del
novecento era ancora alimentarmente autosufficiente e oggi muore di
fame, ma provoca povertà e miseria anche nei paesi che questo
modello lo vogliono esportare. E gli Stati Uniti ne sono l'emblema.
Così come la Russia in cui, secondo
dati dell’Istituto di Progetti Sociali e della compagnia di
sondaggi “ROMIR-MONITORING”
del 2005 cioè prima della crisi, vivono in
condizione di povertà circa il 60% della popolazione adulta. Stati
Uniti e Russia, cioè capitalismo e socialismo, cioè destra e
sinistra, hanno fallito. Neanche loro riescono a reggere i ritmi
sempre più veloci del “progresso”. Così come una bicicletta ha
bisogno di andare a una certa velocità per non cadere, così è il
modello di sviluppo industriale che ci siamo scelti. Ma sono ritmi,
come direbbe Massimo Fini, orgiastici. Che qualcuno forse potrà
ancora reggere per un po', ma che nessuno può reggere per sempre.
Soprattutto viste le conseguenze. Questa continua ricerca della
crescita a ritmi forsennati ha provocato nell'uomo moderno angoscia,
depressione, nevrosi. Sempre per citare un esempio caro allo
scrittore Massimo Fini, se oggi ci sono dieci contadini che coltivano
una terra e otto contadini lavorano bene e due a ritmi lenti, questi
ultimi due vengono mandati via a calci. Una volta non sarebbe
successo così. Si sarebbero divisi il campo in dieci pezzi ciascuno
e una volta concluso non sarebbero andati a cercare la crescita
produttiva del campo, perché gli bastava produrre quello che gli
serviva per vivere. Una volta finito il tempo sarebbero andati nel
villaggio, nelle osterie, a corteggiare le donne. Insomma, a vivere.
Nella società pre-industriale, schifata da tutti e di più, si
preferiva curare i rapporti con le persone che vivevano nel tuo
stesso villaggio piuttosto che cercare il profitto, il guadagno. Oggi
una cosa del genere è inconcepibile. Anzi, viene considerato un
segno di debolezza. Ma è normale, d'altronde ormai siamo tutti
convinti che “Bisogna consumare per aumentare la produzione”, che
la crescita economica è un bene, sempre, e tutto deve ruotare
intorno ad essa. Compreso l'uomo, che ormai non si può più definire
tale. Piuttosto si può definire un consumatore, un fattore da
sfruttare per aumentare la crescita. Siamo solo una parte marginale
di un sistema che non ci riconosce.
Giacomo
Cangi
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