giovedì 15 settembre 2011

USA: IL FALLIMENTO DI UN MODELLO


Il 26 settembre del 2002 il sito Repubblica.it scriveva che secondo i dati del rapporto 2001 su redditi e povertà pubblicato dal Census Bureau erano chiari: negli Stati Uniti i poveri erano 32,9 milioni, 1,3 milioni in più rispetto all'anno precedente. Nove anni dopo: il sito web del giornale “Il Fatto Quotidiano” scrive che nel 2010 gli Stati Uniti contano 46,2 milioni di poveri, il 14,3% della popolazione. I dati provengono anche questa volta dal rapporto annuale del Census Bureau. “La povertà dilaga ormai negli Stati Uniti”, ormai è un dato di fatto. Il paese che l'intero occidente ha preso come modello ha prodotto 13,3 milioni di poveri in nove anni. La cosa, ahimè, non mi stupisce. Anzi, è l'ennesima conferma che la globalizzazione, cioè l'estensione universale del modello di sviluppo industriale(cioè quello utilizzato dagli Stati Uniti), non solo ha provocato, provoca, e continuerà a provocare la distruzione dei paesi che ancora non avevano avuto la fortuna di conoscere il “progresso” e il “benessere”, come l'Africa che ai primi del novecento era ancora alimentarmente autosufficiente e oggi muore di fame, ma provoca povertà e miseria anche nei paesi che questo modello lo vogliono esportare. E gli Stati Uniti ne sono l'emblema. Così come la Russia in cui, secondo dati dell’Istituto di Progetti Sociali e della compagnia di sondaggi “ROMIR-MONITORING” del 2005 cioè prima della crisi, vivono in condizione di povertà circa il 60% della popolazione adulta. Stati Uniti e Russia, cioè capitalismo e socialismo, cioè destra e sinistra, hanno fallito. Neanche loro riescono a reggere i ritmi sempre più veloci del “progresso”. Così come una bicicletta ha bisogno di andare a una certa velocità per non cadere, così è il modello di sviluppo industriale che ci siamo scelti. Ma sono ritmi, come direbbe Massimo Fini, orgiastici. Che qualcuno forse potrà ancora reggere per un po', ma che nessuno può reggere per sempre. Soprattutto viste le conseguenze. Questa continua ricerca della crescita a ritmi forsennati ha provocato nell'uomo moderno angoscia, depressione, nevrosi. Sempre per citare un esempio caro allo scrittore Massimo Fini, se oggi ci sono dieci contadini che coltivano una terra e otto contadini lavorano bene e due a ritmi lenti, questi ultimi due vengono mandati via a calci. Una volta non sarebbe successo così. Si sarebbero divisi il campo in dieci pezzi ciascuno e una volta concluso non sarebbero andati a cercare la crescita produttiva del campo, perché gli bastava produrre quello che gli serviva per vivere. Una volta finito il tempo sarebbero andati nel villaggio, nelle osterie, a corteggiare le donne. Insomma, a vivere. Nella società pre-industriale, schifata da tutti e di più, si preferiva curare i rapporti con le persone che vivevano nel tuo stesso villaggio piuttosto che cercare il profitto, il guadagno. Oggi una cosa del genere è inconcepibile. Anzi, viene considerato un segno di debolezza. Ma è normale, d'altronde ormai siamo tutti convinti che “Bisogna consumare per aumentare la produzione”, che la crescita economica è un bene, sempre, e tutto deve ruotare intorno ad essa. Compreso l'uomo, che ormai non si può più definire tale. Piuttosto si può definire un consumatore, un fattore da sfruttare per aumentare la crescita. Siamo solo una parte marginale di un sistema che non ci riconosce.

Giacomo Cangi

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